Di Laura Naimoli
Conobbi Annunziata Vignes quando ero una bambina. Non avevo idea di quanta lotta e di quanta forza ci fosse in quella donna che tutti continuavano a chiamare con affetto Vignessella. Potrei raccontarvi molto del nostro incontro, quello vero, quello in cui mi spalancò le porte del suo cuore, ma non lo farò. Lascerò che sia lei a travolgervi con la sua storia di piccola donna, di adolescente di madre e di nonna, proprio come travolse me in una giornata di primavera del 2013. Quello di Vignessella è il racconto di una e di molte donne della nostra Piana del Sele che, con sacrificio, dedizione, speranza e amore, hanno lasciato a tutte noi, eredi di questa splendida terra, il seme di quella emancipazione che abbiamo il dovere di coltivare con coraggio. Ora e sempre.
Vignessella, a figliola e Porta Ruanna
Avevo 10 anni e quella mattina mi alzai prima che il sole facesse capolino dalle alte vette dei monti Alburni. E’ stato molto tempo fa e, quello che sto per raccontarvi, lo ricordo come se fosse un sogno, ma un sogno fatto di immagini chiare, di profumi che, chiudendo gli occhi, riesco ancora a sentire, di un tempo fatto di colori antichi: bianco, nero e giallo tabacco.
Di quella mattina, ricordo il calore della grande mano di mio padre che mi ricoprì tutto il viso regalandomi una delle pochissime carezze che mi fece in tutta la sua vita. A quel tempo ‘e figli s’accarezzavan int ‘o suonn, i figli si accarezzavano mentre dormivano e non perché non dovessero sapere quanto bene i genitori volessero loro, ma perché, soprattutto il padre, aveva il compito di dare un’educazione che quanto più rigida fosse tanto più era buona.
Mi stropicciai gli occhi e mi fermai a guardare la distesa di buio che ricopriva, come una morbida coperta, tutte le case del centro storico, anche l’alto campanile della chiesa di San Francesco. Sentii il rumore delle stoviglie dalla cucina. Mamma aveva messo a bollire l’acqua in un grosso pentolone su una piccola vrasera, un braciere, che veniva usato per cucinare o, come in quel caso, per scaldare l’acqua per potermi lavare. Feci colazione con del pane duro che una nostra vicina ci aveva regalato qualche giorno prima. Mia madre lo ammorbidì inzuppandolo in una tazza di latte allungato con l’acqua. Era poco, ma l’amore con cui mamma me lo preparò, saziò a sufficienza il mio piccolo pancino.
Erano le 5,30 del mattino di un giorno di inizio marzo. Mi avviai, accompagnata da mio padre, verso Piazza Porta Dogana. Avevo finito le scuole elementari ed era il mio primo giorno di lavoro. Le nostre famiglie vivevano con poco e noi, piccole donne, dovevamo contribuire a quel poco, lavorando nel grande tabacchificio che si trovava, e si trova ancora, proprio al centro della Piana del Sele, a metà tra la città di Eboli e il mare. La piazza si riempì in poco tempo: le altre figliole, le altre ragazzine, molte delle quali erano state mie compagne di classe, arrivarono poco dopo, alla spicciolata. Quando ci ritrovammo tutte, cominciammo il lungo e faticoso cammino verso il tabacchificio, andando, a piedi, incontro al nostro primo giorno di lavoro. Il cammino fu lungo. Ricordo che seppure la strada fosse in discesa, le mie piccole e sottili gambe cominciarono presto a farsi pesanti. Cantavamo. Le altre cantavano stringendo tra le mani gli zoccoli per paura che la strada li rovinasse. Non potevamo permetterci di comprarne altri e piuttosto che rovinarli, preferivamo camminare scalze. Io mi guardavo intorno, affascinata dai colori che i primi raggi del sole imprimevano sulle gemme appena sorte dai rami dei campi circostanti. Arrivammo al tabacchificio. Era una struttura imponente. Non avevo mai visto nulla di così grande. Il padrone ci aspettava. Le nostre mani erano assai preziose. I semi di tabacco, infatti, sono più piccoli di una testa di spillo e le manine sottili delle bambine erano perfette per poter spargere i semi negli appositi semenzai ed infilare le foglie, quando fossero state pronte, nel cotone per farle seccare con la punta all’ingiù. L’uomo ci accolse tutt’altro che gentilmente e dopo averci squadrato per bene una ad una, urlò alla nostra guida “m’è purtat ‘a picciunama?”. Si lamentò perché, a suo giudizio, eravamo troppo piccole. Nessuno sembrò badargli troppo. Ci mettemmo all’opera. Seminammo nei semenzai i piccolissimi semi fino a sera. Avevamo una sola ora di pausa per il pranzo. Tutto il resto era lavoro. Per fortuna, si cantava. Vignessella. Era così che mi chiamavano tutti: ero piccola e carina, così provarono a vezzeggiarmi, ma con il solo risultato di storpiare il mio cognome, Vignes. Il primo giorno finì con la lunga camminata che ci portò di nuovo a Porta Dogana. La strada era in salita. Non ebbi il tempo di mangiare. Mi addormentai sul tavolo e mio padre, prendendomi in braccio, mi rannicchiò sotto le coperte. Da quel giorno, tutti giorni furono discese e salite scandite al suono delle canzoni che io e ‘e figliole ‘e porta Ruana, intonavamo per sentire meno la fatica. Il motivetto preferito era “Rosamunda”, una polka, che tra un semino e l’altro, ci permetteva di accennare anche qualche piccolo passo di danza , pressappoco faceva così:
“Rosamunda, Rosamunda
Che magnifica serata
Sembra quasi preparata
Da una fata delicata
Mille luci, mille voci
Mille cuori strafelici
Sono tutti in allegria, oh che felicità”
Fu difficile abituarsi al ritmo frenetico di questo lavoro, ma con il passare dei giorni e dei mesi, le mie gambe divennero robuste e forti riuscendo a reggere meglio la fatica. Eravamo un bel gruppo di ragazzine e stringemmo tra di noi una forte amicizia destinata a durare nel tempo.
Avevamo tutte lo stesso bisogno di lavorare: le nostre famiglie non possedevano terreni e senza grano non potevamo permetterci di comprare il pane. Ne combinavamo tante di marachelle. Anche se non avevamo tanti soldi, anche se non avevamo i giocattoli, non perdevamo la voglia di cantare, giocare e divertirci. Presto tutti si affezionarono a noi: quelli che lavoravano all’interno del tabacchificio, quelli che ci portavano le foglie di tabacco che, tra una balla e l’altra, nascondevano alcune pagnotte di pane da regalarci, quelli che erano sempre pronti ad aiutare ‘e figliole ‘e porta Ruana.
Era estate e giunse il momento della raccolta delle foglie di tabacco: trasportavamo cassette colme di foglie, pesanti più o meno 20 chili. Il sole coceva la pelle. Il camion carico frenò nell’ampio cortile antistante il tabacchificio alzando una nube di polvere che, inevitabilmente, si piazzò sulla pelle arsa dal sole. Non pioveva da tante settimane. Il terreno era secco, arido. Io e le altre ragazze, le tabacchine, così ci chiamavano, ci precipitammo vicino al vagone per scaricare i grossi canestri e ci accorgemmo subito che molte foglie non erano di buona qualità. L’uomo che trasportava il mezzo color rosso ruggine, scese per venirci incontro, per aiutarci, ma soprattutto, per sussurrarci: “questo raccolto non è di buona qualità, ma abbiate bontà, non dite niente. Nascosti tra i canestri, ci sono dei meloni. Prendeteli, sono per voi”. Fu così che il nostro silenzio venne comprato da una decina di meloni. Per quanto non fosse corretto, nessuna di noi si sentì di rifiutare quella generosa offerta. Cominciammo a lavorare con il ritmo di sempre, sostenuto, nonostante l’arsura. Dovevamo infilare le foglie di tabacco in sottili fili di cotone. Era come se stessimo realizzando dei festoni di foglie che, impilate su mazze di legno, presto avrebbero scolorito il loro verde intenso e goccia dopo goccia avrebbero assunto il bel color dell’oro.
“Ho caldo, mi gira la testa” disse una ragazzina di 11 anni. Tutte avevamo caldo e a tutte, probabilmente, girava la testa. La più grande di noi, la capo squadra, ebbe un’idea: “ Si, fa troppo caldo. Continuando così finiremo a terra prima che la giornata finisca. Prendiamo i meloni. Ne mangeremo cinque”. Fu così che, furtivamente, ci appropriammo dei meloni nelle casse. Le aprimmo con il coltellaccio utilizzato per tagliare i fili di nylon. Una ad una, senza dare nell’occhio, ci tuffammo con il viso nei canestri e, nascondendoci tra le foglie, non solo mangiammo i succulenti frutti, ma utilizzammo anche il succo per sciacquare la faccia e le braccia nel disperato tentativo di togliere via la polvere e rinfrescarci. Il risultato, però, non fu quello atteso. Asciugato il succo, appiccicato alla pelle, oltre alla terra, ci rimase anche lo zucchero. In ogni caso, eravamo felici: nessuno ci aveva scoperto. Anche quella sera tornammo a casa intonando canzoni lungo il cammino. A quel punto, la stanchezza era poca cosa, si ritornava a casa.
I giorni si susseguivano assomigliandosi l’un con l’altro. Poi scoppiò la guerra. Il cielo divenne qualcosa da dover scrutare continuamente. Grossi uccelli di guerra si aggiravano sopra le nostre teste lasciando nell’aria un’ eco roboante che metteva i brividi. Sirene dal suono intenso e stridulo annunciavano, anche più volte in un giorno, l’arrivo dei cacciabombardieri che, a loro volta, preannunciavano l’imminente pioggia di bombe. Il tabacchificio rimase aperto, così noi continuammo a lavorare fino a quando, un giorno, mentre eravamo intente nel nostro lavoro, un cacciabombardiere americano venne abbattuto dalla contraerea italiana proprio sopra le nostre teste. Ricordo la paura. Rimanemmo immobili per un tempo che sembrò eterno, con le bocche spalancate e gli occhi sgranati. Ricordo il boato, la puzza di bruciato e la nube di fumo che offuscò il tabacchificio e la campagna circostante. Ricordo che sopra la nube vedemmo dei grossi palloni gonfiarsi e, man mano che venivano giù, si facevano sempre più grandi. Attaccati ai palloni c’erano degli uomini, erano gli americani che, proprio un attimo prima di essere colpiti, si erano buttati giù con il paracadute. Nessuna di noi aveva mai visto una cosa simile prima di allora. Precipitando a poche decine di metri dal tabacchificio ci avevano impaurito ed avevano anche arrecato numerosi danni alla struttura. Volevamo fargliela pagare agli americani! Così, senza pensarci su, abbandonammo le casse piene di foglie di tabacco e cominciammo a correre verso l’aereo abbattuto. Volevamo picchiarli. Distruggendo il tabacchificio, avevano distrutto anche la nostra unica possibilità di comprare un tozzo di pane ogni tre giorni. I soldati americani toccarono terra quando noi arrivammo. Subito capirono le nostre intenzioni e ci implorarono di non picchiarli. Ci accorgemmo che si trattava di ragazzi poco più grandi di noi e di sicuro, come noi, erano vittime di una guerra che non volevano. Il popolo non chiede mai una guerra. La subisce.
Dopo quell’episodio il tabacchificio rimase chiuso per molto tempo. Quando tornammo a lavorare lì, le mie gambe erano diventate lunghe e forti ed il mio viso cominciò a somigliare sempre più a quello di mia madre. Stavo diventando una donna. L’allegria era quella di sempre, si cantava come sempre e altre ragazze vennero a lavorare con noi. La guerra finì e lasciò distruzione e terrore in ogni cosa e in ogni cuore, ma era forte anche la voglia di ricominciare a vivere e a costruire una pace lunga e duratura che ridesse speranza a tutti.
Si sa, quando si comincia ad essere grandi noi femminucce diventiamo più vanitose. Non sentivamo più solo la grande responsabilità di portare i soldi a casa per aiutare le nostre famiglie, ma pensavamo anche all’amore. E c’era un ragazzo molto carino che ogni sera si metteva sotto l’unico lampione acceso nella piazza di Porta Dogana e, con lo sguardo fisso sul balcone della mia casa, canticchiava canzoni d’amore. Spesso, la sera mia madre mi mandava dalla nostra dirimpettaia a chiedere tre uova. Lei aveva le galline. Il ragazzo del lampione, quando mi vedeva passare, arrossiva, abbassava lo sguardo e poi, con un fil di voce mi diceva: “buona sera signorina” io rispondevo “buona sera” e da quella sera ci furono un sacco di altre sere buone. Quando lavoravo pensavo a lui e non vedevo l’ora che diventasse buio per andare a chiedere le uova alla signora Carmela per sentirmi dire ancora “buona sera”. Non avevo alcuna possibilità di comprare dei vestiti nuovi, così pensai di fare la cresta sulla busta paga del lavoro per comprarmi una saponetta al profumo di rosa. Ci riuscii. Mi sentivo una principessa con la pelle profumata ma, non riuscii ad ingannare a lungo mio padre che era una persona istruita: aveva finito la sesta classe, di matematica se ne intendeva e capì, quasi subito, che i conti non tornavano! Non mi rimproverò, non disse niente, ma io smisi di imbrogliare e ricominciai a dare tutto il mio compenso a mamma e papà.
Io ed il ragazzo del lampione ci innamorammo piano, piano. Venni a sapere che era stato prigioniero in guerra. Mi presi cura di lui. Ci sposammo. Lasciai il lavoro al tabacchificio e aprimmo un negozietto a Porta Dogana. Il mondo cominciò a prendere altri colori, ma io, per tutti, continuai ad essere Vignessella. Quando ripenso alla mia infanzia, così diversa dalla vostra, il cuore comincia a battere più forte. Mai augurerei a voi, ai miei nipoti di rivivere, anche solo per un istante, quell’epoca piena di dolore, povertà e sacrifici. Quella fu, però, anche un’epoca fatta di cose semplici e genuine. Il mio lavoro e quello delle altre tabacchine non fu indispensabile solo a noi per sfamare le nostre famiglie. Quel seme, grande come una testa di spillo, coperto da qualche millimetro di terra, fu il seme da cui germogliò il fiore del progresso di cui oggi voi cogliete i frutti. Coglieteli bene!
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