Il dialogo d’aiuto. Come potenziare la relazione d’aiuto con una comunicazione ufficiale

Di Paolo Vocca

Ogni relazione tra essere umani è regolata da uno scambio comunicativo, sia esso verbale che non verbale, e la relazione d’aiuto è quella in cui è maggiormente avvertita l’esigenza di una comunicazione efficace.

Se il primo assioma della pragmatica della comunicazione umana ci avverte che “non si può non comunicare”, a maggior ragione bisogna approfondire un corollario di questo assioma, ovvero che “non si può non influenzare” con il nostro modo di relazionarci al prossimo.

La logica conseguenza di quanto sopra è che, visto che siamo “costretti” dalla nostra natura di “animali sociali” a comunicare e a influenzarci, tanto vale apprendere ed applicare delle tecniche che ci consentano di farlo al meglio, e in modo particolare di farlo con lo scopo di raggiungere un obiettivo.

Nella relazione d’aiuto, quale essa sia e quali ne siano i protagonisti (medici, psicoterapeuti, counselor,  infermieri, volontari, parenti dei pazienti etc.), è del più alto interesse possedere una strategia comunicativa. Ma cosa si intende col termine “strategia”? Per i nostri scopi, avere una strategia (e delle tecniche per attuarla) significa: 1) sapere cosa fare; 2) sapere come farlo; 3) avere un preciso e specifico obiettivo da raggiungere.

Non basta identificare l’obiettivo col benessere del paziente, o col sostegno per il familiare dello stesso, o con l’aiuto in generale. Ciò che vogliamo conseguire con la forza della comunicazione, e col dialogo in particolare, è un cambiamento di percezione della realtà, e di conseguente differente reazione alla stessa, da parte di chi sta attraversando un momento della vita difficile, generatore di stress e dolore.

Chiunque ha sperimentato, sulla propria pelle, quanto poco possano essere utili spiegazioni e rassicurazioni quando si soffre (per se stessi o per un proprio caro). In questi casi la logica e la razionalità, la descrizione e la spiegazione, non aiutano a gestire la pressione (fisica e psicologica) causata dal disagio o dalla malattia, per la semplice ragione che qui non c’è nulla da “capire”, non c’è esigenza di un cambiamento a livello “intellettuale”; qui siamo nel campo del “sentire”, del “provare”; siamo nel regno delle sensazioni e delle emozioni.

Lo stesso termine “empatia”, per quanto nobile ed indispensabile, viene spesso frainteso, identificato con una generica comprensione e condivisione dello stato psico-fisico di chi soffre, ma la domanda è: “ è sufficiente essere empatici per produrre un cambiamento benefico? Può bastare l’ascolto attivo, il “saper ascoltare”? Qui non si nega il valore dello stato d’animo di chi presta aiuto né i suoi buoni propositi, ci mancherebbe! Il problema è che non sono sufficienti a produrre quel cambiamento nel sistema “percettivo-reattivo” dell’interlocutore che soffre. Per ottenere questo obiettivo, che è il vero aiuto di cambiamento, bisogna avere quella strategia comunicativa a cui abbiamo accennato, bisogna essere capaci di produrre nell’interlocutore quella che in psicoterapia viene chiamata “esperienza emozionale correttiva”.

Bisogna comprendere che il cambiamento benefico non avviene nel “centro intellettuale”, ma in quello emozionale e in quello fisico. Solo il provare e sentire qualcosa di diverso, e non il semplice “capirlo”, può smuovere la persona dal suo stato disfunzionale, dalla sua incapacità di gestire invece che subire uno stato problematico, di disagio. Il cambiamento di pensiero, come mostra l’esperienza, è un evento successivo al mutamento di emozioni e sensazioni, è una conseguenza.

Arriviamo dunque al  nocciolo della questione: come possiamo produrre nel nostro interlocutore quel cambiamento di percezione-reazione alla realtà problematica che sta vivendo? Possiamo farlo solo con una comunicazione “strategica”, attraverso un dialogo che coinvolga non solo la mente ma anche il corpo, e il cuore, della persona in difficoltà.

Nel nostro arsenale abbiamo diverse “armi” comunicative, differenti stratagemmi per rendere più efficace ed efficiente la relazione d’aiuto in cui siamo impegnati. Prima di vederne una panoramica, è indispensabile tracciare brevemente una distinzione tra relazione e dialogo, perché tra i due termini vi è un rapporto “strumento/obiettivo”, vale a dire che il dialogo d’aiuto è il mezzo attraverso il quale possiamo costruire la relazione d’aiuto.

Il primo concetto essenziale è che, nell’ambito di una relazione d’aiuto, vi è chi lo riceve e chi lo presta. Questa che può sembrare una banale evidenza, è invece una circostanza da approfondire: se ho bisogno di aiuto, in qualsiasi campo, e mi rivolgo a un professionista affermato, l’aspettativa che nutro nel realizzarsi del miglioramento auspicato ha una influenza notevole sul concreto raggiungimento dell’obiettivo. La “parola” del professionista autorevole ha un enorme potere suggestivo, e ha la capacità di innescare a sua volta la mia “auto-suggestione” che, sola, mi condurrà a porre in essere tutti quei comportamenti richiesti per il cambiamento desiderato. La famosa “profezia che si auto-avvera”.

Diverso il discorso quando la relazione d’aiuto è, per esempio, tra un volontario e un paziente, o tra un volontario e un parente del paziente: qui la “parola” del volontario non ha lo stesso potere suggestivo di quella del professionista, dunque tocca darsi da fare per rendere la propria comunicazione adeguata all’intenzione d’aiuto.

Nemmeno la comunicazione del professionista (prendiamo ad esempio il medico) è sempre “potente” in sé, tanto è vero che il problema della “aderenza alla cura” è uno dei più sentiti in ambito sanitario, e nel rapporto terapeuta-paziente in particolare. Tutti gli studi degli ultimi decenni hanno individuato proprio nella “cattiva” comunicazione del professionista (più attento all’organo del paziente che al suo intero “vissuto”) la mancata osservanza, da parte del paziente, delle prescrizioni e delle terapie del medico. Ne deriva che padroneggiare strategie e tecniche comunicative efficaci dovrebbe diventare, in particolare in medicina, una “competenza tecnica” di pari dignità rispetto alle altre che vengono acquisite durante il percorso di studio specifico.

Il dialogo d’aiuto che ho messo a punto (indicato con l’acronimo DIA D’AI) è stato pensato proprio come strumento rapido per accrescere la competenza comunicativa strategica, al fine di ottenere i migliori risultati nel più breve tempo possibile (efficienza ed efficacia). Ovviamente questa tecnica non è frutto di una mia intuizione, ma è il risultato dello studio delle migliori strategie comunicative storicamente evolutesi, a partire dall’antica arte retorica dei sofisti per arrivare alla “pragmatica della comunicazione” della c.d. Scuola di Palo Alto.

Su questo tema ho pubblicato anche un saggio, intitolato “Il dialogo strategico-performativo” (Mind edizioni), di cui il dialogo d’aiuto è una specificazione.

Quali sono le tecniche specifiche di questo dialogo? Per scoprirlo, cliccate sulle clip.

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